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Dall’Italia al Nepal in moto

Dall’Italia al Nepal in moto

Un’avventura impegnativa dal fascino irresistibile.

Your Travel
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Tutto il ricavato del viaggio è andato all’U.O.C. di Chirurgia del Pancreas del Policlinico Rossi di Verona.

Il viaggio in Nepal è un’avventura impegnativa, ma dal fascino irresistibile. Abbiamo associato al viaggio una raccolta fondi, a sostegno della ricerca oncologica. Il pensiero è corso al mio amico Federico Sellaroli, scomparso troppo presto. Era naturale dedicare questa iniziativa alla ricerca scientifica sull’adenocarcinoma pancreatico. Tutto il ricavato sarebbe andato all’U.O.C. di Chirurgia del Pancreas del Policlinico Rossi di Verona.
La rotta definitiva l’abbiamo decisa solo poche settimane prima di partire: ognuno sarebbe partito dalla propria casa, io da Ceccano (FR) e Gianni da Presicce (LE). Ci saremmo incontrati a Bari, poi traghetto verso Igoumenitsa e via, in moto, attraversando Grecia, Turchia, Iraq, Iran, Pakistan, India e infine Nepal.
Le moto, io, con una Yamaha Tenerè, Gianni, con una Royal Enfield Himalayan. Partenza 28 dicembre 2024.
All’alba, da a Igoumenitsa, l’autostrada ci ha inghiottiti tra le montagne innevate della Grecia, tra temperature sotto lo zero e neve che rifletteva un pallido sole invernale. A fine giornata, la frontiera turca ci ha accolto con pioggia e freddo.

Turchia, Iraq e Iran

Lasciata Istanbul, abbiamo attraversato il ponte sul Bosforo e ci siamo ritrovati ufficialmente in Asia. L’autostrada si snodava tra immense distese d’erba secca, che lentamente si dissolvevano nell’oscurità. La mattina puntavamo verso Kemaliye attraversando il Dark Canyon, una gola stretta e suggestiva nel cuore montuoso della Turchia.
Il canyon ci ha costretto a infilare una stradina stretta e dissestata, senza protezioni né segnaletica, con curve al limite e tratti esposti sul fiume. L’acqua colava dalle rocce, aumentando quel senso di precarietà. La strada, dissestata e piena di pozze, richiedeva attenzione, ma regalava adrenalina, anche con l’oscurità.

La frontiera Irachena
La meta del giorno era Silopi, vicina al confine con il Kurdistan iracheno. La strada si snodava tra curve e tratti in ombra, dove il ghiaccio ci imponeva cautela. Intorno, la vista del fiume Eufrate ci accompagnava, incorniciata da paesaggi maestosi.
Il mattino successivo siamo entrati nel Kurdistan iracheno. Lo abbiamo attraversato in un solo giorno ed abbiamo pernottato a Sulaymaniyya, vicino alla frontiera iraniana.

L’Iran
La moka gorgogliava, diffondendo profumo di caffè italiano. Dopo la colazione eravamo in marcia verso la frontiera iraniana, con un filo di apprensione, sciolta chilometro dopo chilometro. Mentre il mondo sconsigliava di andare in Iran, noi avevamo già deciso di visitarlo.
Intorno alle 11 siano arrivati alla frontiera. I giovani soldati iraniani ci hanno accolto con un misto di sorpresa e diffidenza: passaporto, visto e una perquisizione.
La burocrazia è stata snervante: lo stesso agente ci ha controllato gli stessi documenti più volte, ma senza mai chiederci denaro. Alle 15.30, finalmente, il confine era alle spalle.

Esfahan, Persepoli e Shiraz

Avevo sentito raccontare spesso di Esfahan, sempre in toni entusiasti, e non vedevo l’ora di vederla con i miei occhi. Il percorso per raggiungerla non era semplice: l’asfalto si alternava, senza preavviso, a tratti brecciati o pieni di buche, obbligandoci a guidare con grande prudenza. La confusione regnava sovrana: sorpassi azzardati, immissioni senza guardare, clacson che sostituivano i freni. Un concerto stonato, continuo.
Il giorno dopo è comparso Alì, tassista e guida turistica. Ci ha fatto visitare le meraviglie di Esfahan in un giorno solo, ma meriterebbe una settimana intera.
Un pensiero l’abbiamo rivolto anche alle donne che abbiamo incontrato: sorridenti ma segnate da regole dure, costrette a indossare il velo e a rispettare un codice rigido. La loro gentilezza ci ha colpiti quanto i luoghi.

Persepoli e Shiraz
Già da fuori Persepoli ci è apparsa più che un cumulo di rovine: la città, costruita su un’imponente piattaforma sopraelevata, sembrava dominare ancora il territorio.
Nonostante la distruzione voluta da Alessandro Magno nel 330 a.C., Persepoli ha conservato il suo fascino. La parte più bella è l’Apadana, il palazzo delle udienze imperiali. Ci hanno colpito i dettagli: i fiori scolpiti con cura estrema, le delegazioni dei 28 popoli rappresentate con fedeltà, ciascuna con i propri tratti, abiti e doni.
Terminata la visita, siamo partiti per Shiraz, distante circa un’ora. Abbiamo il Re della Luce. Qui, dopo vari controlli, siamo entrati in un palazzo che ci ha lasciati senza parole: pareti, colonne e soffitti decorati da migliaia di frammenti di specchio, creavano riflessi e colori incredibili, come se fossimo dentro una stella.

Il deserto del Lut e l’ingresso in Pakistan

L’avamposto per il deserto del Lut, era la città di Shahdad.
Entrati nella zona dei Kaluts, abbiamo scelto un punto dove diverse auto erano parcheggiate e la gente faceva picnic. Dopo pochi metri ci siamo trovati immersi tra le formazioni rocciose, senza una meta precisa ma incantati dal paesaggio. Abbiamo poi proseguito. Il terreno, ai lati della strada, era rivestito da uno strato bianco di sale, uniforme come un velo. Con il passare delle ore il bianco aveva lasciato spazio a toni più caldi: il marrone delle montagne e l’ocra della terra si fondevano con ciuffi d’erba secca. Verso sera i colori si accendevano: l’ocra si faceva ambrato, l’orizzonte si colorava di arancio sotto un sole che calava lento, sfumato ai bordi, come un dipinto. La nebbiolina che si alzava nelle radure aggiungeva un tocco irreale alla scena. Siamo rimasti a contemplare quel tramonto finché le ultime luci del giorno hanno ceduto al buio.

Al mattino ci siamo diretti verso la frontiera pakistana. L’ingresso è sembrato un salto in un altro mondo. Il primo ufficio era minuscolo, ma custodiva un registro cartaceo enorme, dove l’agente ha annotato i nostri dati. Poi ci hanno accompagnati a un altro ufficio per il controllo dei passaporti, in mezzo a una folla in fila. Completata la registrazione, due militari ci hanno ci hanno scortato in una piccola caserma, fatiscente, all’interno del complesso di frontiera di Taftan. Dovevamo restare lì fino a diverso ordine. Quando abbiamo chiesto se saremmo ripartiti il giorno dopo, la risposta è stata un vago “Inshallah”. Avremo dovuto essere scortati da Taftan, fino a Quetta, circa 600 km.
Avevamo i sacchi a pelo, Gianni anche un materassino; i Levies ci hanno portato delle coperte e ci hanno invitato per un tè nella loro sala, usata per tutto: pasti, relax, preghiere e Kalashnikov.
Abbiamo parlato dei tempi di permanenza, ma nessuno sapeva darci risposte. Il permesso da Islamabad era atteso, ma su cosa lo sbloccasse nessuno sapeva dirci nulla.
Il giorno successivo siamo stati portati presso guest house, migliore della caserma, ma non ci voleva molto. Siamo rimasti lì per 3 giorni, bevendo thè a tutte le ore, in attesa del via da Islamabad.

Taftan, Quetta, Multan

La sveglia è suonata alle 4.30 e in pochi minuti eravamo al punto di ritrovo.  Lì, vi abbiamo trovato due autobus e, poco dopo, se ne contavano una decina. Quasi in contemporanea sono usciti centinaia di viaggiatori da un’altra caserma. Abbiamo trascorso la giornata tra sorpassi ai bus, insulti ai conducenti, che guidavano in modo imprudente, e continui check-point, dove i controlli si concentravano sempre su me e Gianni. In questo clima siamo arrivati a Quetta la sera alle 22, esausti. L’indomani ci siamo svegliati riposati e pieni di energie, pronti a riprendere la strada verso nord. Ma i pakistani ci hanno stupito di nuovo. Eravamo pronti a partire, invece mancava un documento Il NOC (No Objection Certificate). Bisognava ottenerlo. Questo ha tardato la nostra partenza di un altro giorno. Avremmo dovuto avere la scorta almeno fino al confine del Belucistan.

Al mattino, senza nemmeno fare colazione, eravamo già pronti. Fuori dalla città ci siamo ritrovati ad attraversare gole spettacolari ma insidiose. La strada era dissestata e le pareti rocciose, a strapiombo, sembravano minacciarci in ogni momento. La montagna lasciava cadere sassi e pietre, a cui abbiamo assistito senza danni. In quei luoghi, se non rischi di essere raggiunto da un colpo d’arma da fuoco, puoi comunque finire sotto un masso. Eravamo determinati a ignorare le direttive della scorta. Ormai ci eravamo trasformati in autentici fuorilegge, perfettamente adattati al caos della circolazione locale. Giocando a guardie e ladri, siamo arrivati a Multan in serata.

India

Al mattino eravamo pronti a dirigerci verso il sospirato confine con l’India, la Wagha-Attari border. La sopportazione era al limite. L’unico pensiero era lasciare quel paese. Giunti alla frontiera, abbiamo incontrato un facilitatore che si è offerto di guidarci tra le pratiche doganali, avvisandoci che il tempo era pochissimo: se avessimo concluso le procedure di uscita senza entrare in India, saremmo rimasti bloccati nella zona franca. Appena in tempo, i cancelli dell’India si sono aperti quel tanto che bastava per farci entrare. E si sono chiuso definitivamente alle nostre spalle.
In india, fin dai primi chilometri ci siamo resi conto di essere entrati in un’altra dimensione: la densità di popolazione era altissima e, ovunque, c’erano persone, animali, carretti, bambini e un’infinità di Tuc-Tuc.

Agra era la porta d’accesso al Taj-Mahal. Appariva in lontananza perfetto, quasi emerso dalla terra più che costruito. Avvicinandoci, la sua maestosità ci ha lasciati senza parole: il marmo bianco, gli intarsi di pietre colorate, i motivi floreali e le scritte in diverse lingue erano un capolavoro.
Mancavano pochi chilometri al confine con il Nepal, dove saremmo stati per circa otto giorni. Senza indugi abbiamo messo in moto e siamo partiti verso Sounali, la frontiera. In quei chilometri si sono susseguite tante emozioni: ce l’avevamo quasi fatta. La folle idea di arrivare in Nepal, con le nostre moto, stava per realizzarsi e la felicità era tanta.
Alla frontiera, dopo i controlli sui passaporti e sulle moto, abbiamo finalmente oltrepassato il confine. I nepalesi ci hanno accolto con sorrisi e gentilezza: eravamo felici, ce l’avevamo fatta.

La catena Himalayana

Ci siamo messi in viaggio sulla Siddhartha Highway verso Pokhara, tra polvere e strade dissestate. A tratti l’asfalto migliorava e trovavamo piccole aree di ristoro. Dopo una breve sosta per mangiare, siamo arrivati a Pokhara nel tardo pomeriggio. L’atmosfera era viva, piena di turisti appassionati di trekking. Il giorno dopo avremmo preso il permesso accedere al Mustang e iniziato una nuova avventura.
Al mattino, ci siamo recati all’ufficio del turismo per il permesso. La giornata prevedeva 180 km verso l’Annapurna. Usciti dal traffico di Pokhara, la strada si è fatta sinuosa e inizialmente ho accelerato un po’, preso dall’entusiasmo. Dopo Patichaur, però, l’asfalto ha lasciato spazio a pietraie, buche e fango. Ci siamo ritrovati tra cantieri infiniti, camion e trattori, in un continuo alternarsi di polvere e fango.
A Jomsom, finalmente, l’asfalto è migliorato e abbiamo guidato, sorridendo, fino a Muktinath.
Il villaggio sembrava deserto: hotel chiusi, qualche cavallo e bandierine. Alla fine abbiamo trovato un posto aperto: l’Hotel Bob Marley. Era il nostro approdo, la meta nella meta. Scendere dalla moto è stato un momento carico di gioia e adrenalina: l’Himalaya era nostro.

La prima tappa è stata il tempio buddista e induista, poco oltre l’hotel. Abbiamo parcheggiato ai piedi della lunga scalinata, circa 400 gradini ripidi che, a 3800 metri, ci hanno tolto il fiato dopo pochi passi. I panorami non bastavano a rendere la salita meno faticosa. Dopo la visita, ci siamo diretti verso un centro abitato poco distante. La strada che scendeva era ripida e coperta di pietre, e ho faticato a controllare la moto. Siamo finiti in un paesaggio magnifico: solo montagne, pietre, polvere e un leggero vento. Nel pomeriggio abbiamo cercato il ponte tibetano, a Kagbeni, raccontato da un amico. Lo abbiamo trovato senza difficoltà e lo abbiamo attraversato con cautela. Tra curve strette e saliscendi, evitando frane e strapiombi, siamo arrivati a Tiri Village, un luogo che sembrava disabitato. Abbiamo percorso solo 30 km, ma è stata una giornata intensa e indimenticabile.

Kathmandu

Abbiamo trascorso gli ultimi giorni a Kathmandu. Raggiungerla non è stato affatto facile. La strada è una sola e i lavori in corso era tanti. A Kathmandu abbiamo goduto della sua atmosfera caotica, ma affascinante. Abbiamo visitato le tre piazze Durbar: quella nella capitale, quella di Patan e quella di Bhaktapur. Ognuna aveva il suo fascino, tra templi antichi, statue e palazzi che raccontavano storie di un tempo lontano.
Ci siamo persi nei vicoli stretti e polverosi della città, tra colori, odori e suoni che sembravano non spegnersi mai. Il giorno prima di partire, siamo andati al deposito dell’aeroporto, con lo spedizioniere, per preparare le casse per la spedizione delle moto. Il giorno successivo siamo ripartiti anche noi, con la testa e il cuore pieni di immagini, profumi e storie che ci avrebbero accompagnato a lungo.

Era il due febbraio, avevamo viaggiato per 37 giorni e percorso circa 11500 km.
Totale fondi raccolti: 15420 €